Un giorno tutta questa fatica ti sarà utile 14 Giugno 2023

Discriminazioni, dal money gender gap all'utilizzo dei femminili professionali: che fatica. Nell'ambito della giustizia sociale la fatica di rispondere alle medesime obiezioni più e più volte ha un nome: activism fatigue. E Flavia Brevi ci racconta la sua.

editoriale di Piano C a cura di Flavia Brevi - Capa Comunicazione di Fondazione Libellula, Creatrice e creativa di Hella Network

Un mese fa ho condiviso sui social il welcome kit di Fondazione Libellula, il mio nuovo posto di lavoro.

Si tratta di una shopper su cui è impressa la scritta “Bye bye patriarcato” e un quaderno che recita “I’m feminist”. Messaggi chiari, schierati, posizionanti, che certo possono non essere condivisi da tutt*.

Chi fa attivismo lo sa e sa anche che una parte esprimerà il proprio dissenso con un commento. È lecito.

Alcune obiezioni sono imprevedibili, ma la maggior parte sono ricorrenti.

Tra queste, la prima e primigenia riguarda la confusione esercitata dal fatto che la parola “femminismo” suona proprio come “maschilismo”, e che pertanto – a rigor di logica – il significato della prima parrebbe speculare a quello della seconda.

COME FUNZIONA IL PENSIERO BASE

Dato che

“maschilismo = atteggiamento basato sulla presunta superiorità dell’uomo sulla donna”

allora

“femminismo = atteggiamento basato sulla presunta superiorità della donna sull’uomo”

E INVECE

ogni volta tocca specificare che il contrario del maschilismo, e quello che chiede la maggior parte dei movimenti femministi, è l’equità.

Equità, che non è esattamente uguaglianza.

“Non vogliamo l’uguaglianza, vogliamo equità. L’uguaglianza è trattare tutte le persone allo stesso modo. L’equità è far accedere tutte le persone alle risorse di cui hanno bisogno per raggiungere il loro successo. Così otteniamo l’uguaglianza. Non può esserci uguaglianza senza equità.”

Alex Borstein: Corsetti e Costumi da Clown

Queste differenze, che possono parere giusto dettagli, sono in realtà concetti di un certo spessore; farli propri richiede uno sforzo. Non biasimo chi non vi è ancora entrato in contatto – soprattutto finché questi concetti rimarranno fuori dalle aule scolastiche o dai media mainstream.

Tuttavia è stancante, ogni santissima volta che si entra nel merito delle discriminazioni, ritrovarsi a rispondere alle medesime obiezioni, come se fossi bloccata in un eterno giorno della marmotta:

Avete gli stessi diritti ormai, perché vi lamentate?
(Perché sono solo sulla carta e di fatto restano inaccessibili, vedi alla voce: legge 194 e donne ostaggio dell’obiezione di coscienza)

Ma non è meglio lottare per la parità salariale anziché per le vocali?
(Può esistere equo riconoscimento economico se non riconosciamo nemmeno che la forma femminile di una professione ha lo stesso valore di quella maschile? E chi ha interesse nel farci concepire le due cose come in contrapposizione?)

Io sono donna, ma tutta questa discriminazione che dite non l’ho mai subita.
(Grazie per aver portato la tua esperienza personale. Ora possiamo parlare del resto del mondo?)

State sempre a fare le vittime, però intanto in guerra ci vanno gli uomini.
(Sì, e indovina da chi vengono mandati? Da altri uomini.)

Non staremo esagerando?
(Quante volte vorrei ribattere con un lapidario: no.)

Che. Fatica.

Non è solo un modo di dire: si chiama “activism fatigue”, la fatica dell’attivismo, e ne ho letto per la prima volta in quest’articolo del The Stanford Daily del 2020.

In riferimento al movimento Black Lives Matter, afferma che:

Le persone hanno iniziato ad allontanarsi dalla narrazione e i post sono diventati emotivamente saturi, mentre altre hanno avuto la sensazione di non fare abbastanza.

Altre ancora si sentivano disgustate e depresse dalla quantità di dura realtà nei media, mentre altre pensavano che se non avessero postato abbastanza sarebbero state viste come insensibili o contrarie al movimento. Altre pensavano che la velocità dei loro sforzi non fosse all’altezza del ritmo del cambiamento che chiedevano. Altre si sentivano completamente spaventate. Questo è noto come burnout della giustizia sociale.

Ci sono dei modi per lenire la fatica dell’attivismo? Formulo qualche proposta:

  1. Crea la tua rete di sorellanza. Quando avrai bisogno di una pausa, potrai passare il testimone a una persona (o più) di cui ti fidi.
  2. Poggia giù quella sindrome della crocerossina (è sessista “sindrome della crocerossina”? Probabilmente sì). Non puoi salvare gli altri, se prima non stai bene. Hai presente le istruzioni che trovi sull’aereo che indicano di infilarti prima tu la maschera d’ossigeno e poi metterla all’infante al tuo fianco? Può sembrare un atteggiamento egoistico, ma è strategico per la salvezza di entrambi.
  3. Rinuncia a voler convincere tutt*. La maggior parte delle volte non sono “tutt*” l’obiettivo, ma quelle poche persone che hanno il potere di cambiare le cose.
  4. Trattieni ottimismo come tratterresti il respiro passando per un letamaio. L’evoluzione non è mai stata una linea in crescita infinita, ma le comunità marginalizzate hanno più strumenti oggi che in passato.
  5. Blocca. Blocca sui social chi ti fa star male, chi vuole erodere il tuo tempo e le tue energie perché vuole attenzione.
  6. Bello ‘sto elenco motivazionale, scenografico per l’articolo, non c’è che dire. Ma la terapia è più efficace.

Ora stacco, mentre da lontano sento già il suono di una tastiera che sta digitando:
Macché fatica, a voi femministe vi manderei tutte in miniera!

Ve l’ho detto: la maggior parte delle obiezioni sono ricorrenti.