Se mi rilasso, collasso. 31 Luglio 2024
Siamo ancora capaci di concederci la pennichella? Sembrerebbe che l'ecosistema digitale, il carico mentale e il genere non siano dalla nostra parte, e che fare un sonnellino postprandiale, per di più infrasettimanale, sia diventato un lusso.
editoriale per Piano C a cura di Fabiola Noris - Copywriter e UX Content Designer
Quanto è soddisfacente potersi concedere il lusso di buttarsi sul letto, chiudere gli occhi e addormentarsi, dopo pranzo?
Chiudo un attimo gli occhi e mi rilasso salvo poi sprofondare in un sonno profondo con la bocca spalancata e un filino di bavetta che lentamente scivola fuori. Finire così a fondo, anche per poco, per poi risvegliarsi e dire ne avevo proprio bisogno.
Ecco, io di questi abbiocchini così soddisfacenti è da un po’ che non ne faccio.
Ricordo con nostalgia quelli che facevo durante le superiori. La sveglia suonava alle 6.15 della mattina per prendere l’autobus delle 7 che risaliva la valle verso l’altopiano. Tornavo a casa per le 14, pranzavo e mentre alla tv c’era Vivere io collassavo sul divano con mia mamma che mi diceva “fai un pisolino che così poi hai le energie per fare i compiti.”
Tutto vero, salvo poi avere sì, le energie ma la voglia per i compiti di fisica, quella i pisolini, non me l’hanno mai fatta arrivare.
Crescendo poi, la penichella pomeridiana è svanita tra i banchi dell’università e le prime esperienze di lavoro. É ritornata preponderante invece nei momenti più difficili, in cui chiudere gli occhi nel pomeriggio significava allontanare per qualche ora i dolori di una perdita dolorosa. Dormire per non pensare, dormire per stare bene.
Aperta la partita iva, gli abbiocchini sono scomparsi dal radar. Al massimo la domenica, dopo aver mangiato la polenta dalla mamma.
E poi rieccoli, per necessità, gli abbiocchini di quando aspettavo la mia bimba: ecco, quelli me li sono proprio concessi e goduti anche se sottofondo c’era lo spettro di una gravidanza a rischio.
Mamma, con partita iva, mi dividevo tra le lezioni di un master che stavo frequentando, il lavoro da freelance, le ore di formazione in una scuola a Milano, casa, figlio e marito. Insomma, il pomeriggio un abbiocchino con le gambe alzate non me lo levava nessuno.
E ora eccomi qua.
L’abbiocchino è un lusso.
Perché ho sempre qualcosa da fare, qualcosa di più importante da fare, una to do list da portare avanti, la casa da sistemare che questa casa non è un albergo ma l’entropia se la sta divorando e sì ok, i bambini si ricorderanno del tempo passato con te e non dei pavimenti puliti, però come diceva la mia nonna, l’ordine sta bene anche alla casa del diavolo.
Poi, sono andata al mare.
Complice la piccola che fa ancora la nanna post pranzo, salivo in camera con lei, e invece di dormire e di riposare… 5 minuti di Instagram che si trasformavano in mezz’ora e poi un’ora. Alla fine crollavo quella mezz’oretta prima di essere risvegliata da una manata sulla faccia e vedere due occhioni verdi che mi fissavano.
Si chiama cronofagia. No, non la manata della quasiduenne, ma la predazione del tempo di vita da parte del capitalismo.
Sì, perché non sono io, ma è lui il colpevole che mi attira nelle sue trame malefiche e io attratta da contenuti più o meno fatti bene, mi perdo in un flusso portato avanti dallo scrolling infinito.
L’esistenza della cronofagia l’ho scoperta leggendo Manifesto Pisolini di Virginia Cafaro, durante uno di questi pomeriggi al mare dove mi sono imposta di non scrollare all’infinito ma impegnare il mio tempo in modo costruttivo, o anche di annoiarmi beatamente.
Cafaro spiega: “Tutte le volte che ci sentiamo in lotta contro il tempo, sopraffatte dagli impegni, impossibilitate a ritagliarci una fetta di ozio, siamo in lotta contro il capitalismo cronofago, che, letteralmente, “ci mangia il tempo” e ci impedisce di riposare e di essere quindi economicamente improduttive.”
Continua poi sottolineando come il genere e il mondo digitale siano alla base della cronofagia.
“Per cercare di intercettare la cronofagia è importante tenere conto di due elementi: il genere e l’ecosistema digitale. Il primo riguarda il tempo lavorativo delle donne, che si sdoppia tra quello di cura in casa e quello retribuito al di fuori. Anche le donne che non svolgono mansioni produttive spesso si ritrovano comunque a impiegare tutto il loro tempo nei lavori di cura, senza stipendio, che si tratti di prole, partner o genitori anziani. Il secondo invece si riferisce a tutti quegli espedienti, apparentemente divertenti e d’intrattenimento, messi in atto dalle aziende big tech per tenerci incollate allo schermo ad acquistare prodotti, guardare video, produrre dati (ad esempio grazie ai “like” e ai “click” che da una sponsorizzata su Instagram ci rimandano a un sito). Ci sono altri elementi che fagocitano il tempo, ma la combinazione di quelli evidenziati mi sembra la forma di cronofagia più deleteria degli ultimi decenni.”
Bingo.
Il tempo sacro della pennichella
I social si stanno impadronendo del nostro ozio, del tempo sacro dedicato alla penicchella.
Per non parlare della procrastinazione della buonanotte. Ancora una scrollatina e si fa la mezza.
Sempre Cafaro “La procrastinazione della buonanotte (bedtime procrastination), detta anche “procrastinazione della buonanotte per vendetta” (revenge bedtime procrastination), è un fenomeno piuttosto comune e si tratta della volontaria posticipazione del sonno per rivendicare il tempo libero perso durante il giorno.”
E se non sono i social che mi impediscono di chiudere occhio, è il lavoro: nel mio caso sia quello da freelance che quello di cura.
Non posso concedermi il lusso di dormire, anche perché appena proverei ad appoggiare la testa sul cuscino, la porta dei sensi di colpa si spalancherebbe e la mia mente inizierebbe a passare il film delle 4850 cose che dovrei fare.
Però adesso con 34° e badate bene, no, non è l’umidità che me ne fa percepire 40, sto rivalutando il riposo della guerriera post prandiale.
Perché il surriscaldamento globale incide sulle nostre abitudini e se ci sono nazioni che hanno fatto della siesta il loro baluardo, un motivo c’è.
“I pisolini sono ambivalenti: vengono celebrati durante i tempi di forzata improduttività lavorativa (appunto, età infantile e senile, ma anche malattia, vacanza o il post-pranzo della domenica) e demonizzati in quelli lavorativi, tacciati di ozio (in accezione tutta negativa) e inconcludenza. Eppure, a prescindere dai tempi di vita in cui ricadono, riescono quasi sempre a rivelarsi efficienti nel proprio obiettivo: rigenerarci.
Questa rigenerazione presenta diversi benefici sia biologici che morali: aiuta la memoria e la capacità di pensiero e ci ricorda come il tempo di vita debba includere il riposo per rientrare nei paradigmi della buona vita.”
Insomma, per vivere bene bisogna riposare.
Se mi rilasso, collasso come cantava la Bandabardò, ma è un collassare che riporta a nuova vita.
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