Che storia! Manuela Appendino 14 Maggio 2023
Un apparecchio odontoiatrico, un fidanzato ingegnere, la passione per la sala operatoria. Manuela Appendino ha trovato il coraggio di non mollare per realizzare il suo più grande obiettivo: diventare ingegnera biomedica e portare un contributo dal valore tangibile nell’ambito medico chirurgico e STEAM.
a cura di Fabiola Noris
Manuela Appendino, parla in modo accurato e preciso, sceglie le parole con attenzione, senza fretta. Come una chirurga che utilizza con precisione certosina il bisturi, così lei racconta della sua professione con minuzia e scrupolo.
Viene da una giornata di lavoro passata con il team di chirurghi vascolari e urologi con cui il giorno dopo dovrà entrare in sala operatoria. Insieme hanno lavorato per prepararsi agli interventi che dovranno affrontare. No, Manuela non è medico, è ingegnera biomedica.
L’ingegnera del cuore, l’hanno soprannominata, per la passione che mette nel suo lavoro e per la professionalità e competenze che ha acquisito sul campo, in cardiologia. E, un piccolo cuore tatuato sull’avambraccio destro è lì, a ricordarle che ha fatto bene a non mollare, anche quando tutto sembrava invocarla di abbandonare il suo progetto.
L’apparecchio odontoiatrico
Manuela riconduce a questo momento della sua infanzia la nascita del pallino per l’ingegneria biomedica, anche se ancora non sapeva cosa fosse. A 9 anni la madre la porta dal dentista e lei, per nulla intimorita, inizia a bombardarla di domande sul come venisse realizzato l’apparecchio per i denti. Il medico la porta nello studio dell’odontotecnico: tra frese e ceramiche tonalizzate scatta il colpo di fulmine.
È così che sceglie di frequentare la scuola per odontotecnici anni dopo per la scuola secondaria. Una scelta dettata sia dalla passione ma anche dal contesto famigliare di Manuela per cui formarsi per avere un mestiere tra le mani doveva essere la priorità. Gli anni a venire sarebbero stati tosti: sveglia alle 6 per raggiungere la scuola di Torino, lezioni la mattina, i laboratori fino alle 18 del pomeriggio, per poi ritornare a casa, nel paese in provincia.
“Mi innamoro di questo lavoro ma scopro ben presto che è svolto principalmente da maschi e se possibile tramandato di generazione in generazione.”
Una presa di coscienza che demolisce i suoi progetti e le fa dubitare che quella sia la strada giusta per lei.
Galeotta fu l’aula studio del Politecnico
Non ancora diplomata Manuela inizia a frequentare il Politecnico di Torino.
“Avevo un fidanzato ingegnere e andavo in aula studio con lui e i suoi amici a studiare le formule matematiche. Un giorno i suoi amici mi dicono che avrei dovuto lasciar stare le protesi dentarie e pensare all’ingegneria biomedica: mi si aprì un mondo.”
Un suggerimento che Manuela coglie al volo, inizia a fare degli approfondimenti, a documentarsi e capisce che sì, questo è quello che vuole fare da grande. Portare un valore concreto e tangibile nella vita degli altri, sia aiutando i professionisti che devono utilizzare la tecnologia, sia di riflesso i pazienti che di quella tecnologia hanno bisogno per vivere.
Decide di iscriversi all’università, il padre non approva questa sua scelta, ma Manuela si mantiene agli studi lavorando, di giorno come commessa in un negozio di elettronica, di sera in una gelateria. La notte porta avanti lo studio. A tutto ciò si aggiunge il lavoro di cura famigliare a cui non può sottrarsi. Il carico mentale e fisico è pesante, ma Manuela ha un obiettivo.
“Ho pensato mille volte di mollare ma avevo l’obiettivo enorme di poter entrare in una sala operatoria. Volevo viverla, capire come fare un massaggio cardiaco, cosa c’era dentro, come si gestiva un’emergenza. Non volevo farlo in qualità di medico ma attraverso la tecnologia. La mia performance consiste infatti nello sfruttare al massimo la tecnologia, stare vicino agli utilizzatori e aiutarli a gestire nel migliore dei modi le sessioni operatorie.”
Conclusi gli studi universitari inizia a lavorare presso l’ospedale di Asti, Cardinal Massaia, ricoprendo il ruolo di Clinical support Specialist.
Il suo lavoro? Aiutare il team degli operatori sanitari a mantenere la sicurezza all’interno della sala operatoria dal punto di vista delle attrezzature biomedicali. Se l’anestesista si occupa di fornire al paziente un trattamento specifico per essere addormentato e risvegliato nel miglior modo possibile, il biomedico si occupa di tutta la tecnologia che ruota attorno al lettino del paziente.
Ingegnera biomedica, la guardiana della tecnologia
Dalla cardiologia è passata alla chirurgia: un ruolo più complesso perché più complesse sono le varie discipline cliniche.
“L’idea di contribuire come tecnico a valorizzare le potenzialità della tecnologia per me ha un fascino incredibile: stare fianco a fianco dei medici e capire veramente quale apporto dare a livello tecnico e ingegneristico per supportare sia loro nell’avere degli strumenti che siano i migliori possibili sia per offrire ai pazienti la cura migliore, una differenza che può diventare un salvavita.”
Il lavoro di Manuela consiste infatti nell’accompagnare i medici a saper usare al meglio i dispositivi. Questo significa anche fare formazione: fare in modo che i medici abbiano confidenza con la tecnologia e la loro tecnica operatoria non venga inficiata da un cattivo funzionamento o approccio verso la tecnologia stessa. Non è un ruolo solo progettuale, ma un lavoro in cui la relazione con il medico, gli infermieri, la caposala diventa fondamentale. Significa anche utilizzare un linguaggio comprensibile, tradurre dal burocratese ingegneristico, in sala operatoria non c’è tempo da perdere, le informazioni devono essere chiare e precise.
“Sento di essere nata per scrivere una storia nuova. Ed è quello che faccio ogni giorno.”
We Wom Engineers
L’ingegneria biomedica è un indirizzo di ingegneria che è stato ufficializzato solo una ventina di anni fa. Si tratta di un indirizzo creato ad hoc per formare professionisti che abbiano particolare confidenza con la tecnologia che interagisce con il corpo umano direttamente o indirettamente. Da dispositivi salvavita come defibrillatori, peacemaker, a un semplice paio di occhiali, passando per le protesi, tecnologie che hanno tra gli scopi principali la cura, la diagnosi e il miglioramento di una patologia.
Il biomedico è una figura che si interfaccia prima dal punto di vista fisiologico con il corpo umano studiandone i principi, l’anatomia e poi fa da traduttore, sia per quanto riguarda la progettazione che l’utilizzo vero e proprio, quella che viene denominata performance.
Si tratta di un ruolo fondamentale: ci sono delle tecnologie così evolute che necessitano di una figura che conosca molto bene le caratteristiche tecniche, come quella tecnologia deve interagire con altre e che possa operare con il medico seduta stante.
È proprio da questa consapevolezza che Manuela crea, prima con un blog e poi, con la nascita dell’associazione omonima nel 2021, il progetto We Wom Engineers.
Una rete che faccia da cassa di risonanza affinché la categoria degli ingegneri biomedici venga riconosciuta giuridicamente in Italia.
Per Manuela l’associazione rappresenta un punto di incontro sia per creare conoscenza, divulgazione che fare rete. Un luogo dove le giovani leve che escono dall’università possano trovare un confronto e capire come meglio muoversi all’interno del mercato del lavoro.
L’associazione, oltre alla divulgazione a livello nazionale dell’importanza di una professione come questa sia come supporto del sistema sanitario nazionale, sia per l’efficientamento dei servizi, si occupa anche del miglioramento e aumento della presenza femminile nel mercato e dell’avanzamento di carriera nel settore STEAM.
Manuela oltre a essere fondatrice e presidente dell’associazione partecipa a eventi e conferenze. Il prossimo 22 e 23 giugno parteciperà a Bologna alla Convention Donne protagoniste in sanità.
Terrà un tavolo tecnico sulla tecnologia di genere per approfondire lo studio e la progettazione di tecnologia per utilizzatrici donne e pazienti donne.
Di stereotipi di genere nel mondo STEAM e momenti difficili
Manuela non nasconde di aver visto e vissuto sulla propria pelle discriminazioni in quanto donna. È proprio grazie alla sua esperienza personale che può dire di aver contribuito con la sua attività a portare un cambiamento.
“Ho avuto il coraggio di creare questa rete e acquisire ruoli che mi conferissero una voce istituzionale perché solo così avrei potuto fare la differenza. Ho capito che solo rafforzandomi avrei potuto avere un potere di voce più grande. Ed è stato da quel momento che ho iniziato a vedere dei cambiamenti.”
Manuela oggi infatti coordina la Commissione Clinico Biomedica dell’ordine degli ingegneri di Torino ed è consigliere dell’Associazione europea degli ingegneri biomedici EAMBES in cui si occupa di parità di genere, ed è stata vicepresidente della Consulta femminile della regione Piemonte.
Oltre ai pregiudizi anche i momenti difficili non sono mancati: come quando la startup in cui lavorava è fallita e si è ritrovata senza lavoro, stipendi arretrati non pagati e con un figlio piccolo di cui prendersi cura. E una certezza: aveva ancora tanta voglia di rimettersi in gioco.
“Per la prima volta da sola ho preso la macchina e sono venuta a Milano per un evento organizzato da Piano C. Ho lavorato insieme ad altre donne come me interessate a creare il proprio percorso di carriera. È stato in quel momento che ho capito che nulla era perduto, non ero più sola e c’erano professioniste esperte nell’empowerment che mi avrebbero potuta aiutare.”
Manuela riparte da lì, da sé stessa e non si ferma più.
“Ho dovuto creare una mia strategia, come professionista, come mamma e donna per rafforzarmi: ho seguito un corso di meditazione, counceling, ho lavorato sui miei potenziali e sulla revisione delle competenze, mi sono messa in gioco in primis con me stessa. Non si trattava di dimostrare qualcosa agli altri ma si trattava di darmi una possibilità per migliorarmi come persona per trovare il mio potenziale migliore. Prima ancora di aspettarmi dagli altri qualcosa.”
Ed è proprio su questo aspetto, rafforzare l’identità delle persone, mettendo in circolo a sua volta ciò che ha appreso, che cerca di lavorare ogni giorno con l’associazione.
E il legame con Piano C? Le strade si sono incrociate di nuovo: da 4 anni infatti con We Wom Engineers collabora nel network nazionale di Inclusione Donna.
“Mio padre, il mio primo follower“
Manuela si è conquistata giorno dopo giorno il rispetto sul campo. Ha mantenuto fede alla promessa che si era fatta per cui le persone che avrebbero lavorato con lei l’avrebbero fatto con piacere.
E sul lato sinergia famiglia-lavoro la situazione è in continuo divenire ma è stata fondamentale la sua fermezza.
“La conciliazione è stata difficile soprattutto all’inizio. Mi ha aiutato lavorare su di me e avere la forza di mantenere quei no con tutti, non solo con mio figlio: sono quei no che hanno rafforzato quel rispetto alla base di una relazione paritaria.”
Una fermezza che Manuela ha tenuto allenata costantemente e ha fatto capire ai suoi cari che no, non avrebbe mollato e che era più semplice aiutarla, invece di renderle le cose più difficili.
“Ho rimodificato le mie priorità sapendo che ci sarei arrivata negli anni, ho trovato degli incastri che uniti alla fermezza mi hanno permesso di arrivare qui, dove sono oggi, al punto che sono proprio loro a dirmi che non posso mollare, ora che sono arrivata fin qui.”
Manuela Appendino, tenace, energica e coraggiosa. Ogni giorno spiega al figlio cosa fa e l’importanza del suo lavoro, perché se un giorno avesse bisogno di un ospedale vorrebbe il massimo. Eh sì, ogni giorno scrive per qualcuno, che nemmeno se lo immagina, una storia nuova.
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