Nascite e rinascite 23 Ottobre 2022
Da madre a donna, da oggetto a soggetto. L'editoriale di Maria Rossa ci racconta come è cambiata la rappresentazione del corpo femminile, tra icone e nuovi simboli.
editoriale di Piano C a cura di Maria Rossa - assegnista di ricerca in storia dell’arte contemporanea
Se Maria avesse potuto scegliere, sarebbe stata Madre del figlio di Dio?
In un saggio pubblicato nel 1972, lo storico dell’arte britannico Michael Baxandall spiegava come davanti al dipinto di un’Annunciazione, il pubblico del Quattrocento fosse in grado di riconoscere negli atteggiamenti di Maria e dell’Arcangelo Gabriele quale momento del loro incontro fosse ritratto: l’arrivo dell’Arcangelo e il turbamento di Maria (conturbatio); la riflessione di Maria sul perché l’Arcangelo la saluti dicendole che il Signore è con lei (cogitatio); la domanda rivolta a Gabriele su come sia possibile che concepirà un figlio dal Signore (interrogatio); l’accoglienza della volontà di Dio (humiliatio).
Nonostante la raffinatissima ondulazione emotiva nella reazione della Vergine, manca in ella l’ombra di un rifiuto nei confronti del suo destino. La sua dimensione interiore è blindata entro un ventaglio di emozioni compatibili con la sua funzione.
Certo, direte, è ovvio: lei è Madre, è colei che accoglie e nutre, simbolo del sacrificio e di totale dedizione alla volontà di Dio. Un simbolo divenuto modello di maternità, di ciò che spesso ancora oggi ci si aspetta dalle donne in quanto madri: amore, dedizione, totale spirito di sacrificio nei confronti dei propri figli.
Questa considerazione oggettuale del ruolo della madre non è distante da quella che, secondo la critica femminista, ha guidato per secoli la rappresentazione artistica del corpo femminile; e perché la rappresentazione del ruolo della madre iniziasse a svincolarsi dalle aspettative esterne, è stato necessario che a essere liberata fosse anzitutto la rappresentazione del corpo.
Il corpo femminile, infatti, per lunghi anni non è stato soggetto, ma ha esaurito la sua funzione nell’essere oggetto dello sguardo altrui.
Il corpo delle donne: da oggetto a soggetto
Non è un caso se nel 1914 Mary Richardson, per protestare contro l’arresto dell’attivista per il suffragio delle donne Emmeline Pankhurst, abbia colpito ripetutamente con una mannaia proprio il dipinto di un corpo nudo conservato alla National Gallery di Londra. Si trattava della figura di Venere che Diego Velázquez dipinge distesa di schiena mentre guarda il suo volto riflesso in uno specchio tenuto da Cupido. Tra le ragioni che la spinsero al gesto, la Richardson raccontò:
Da quel momento, in area femminista l’opera divenne simbolo dello sguardo oggettualizzante maschile sulla donna. E tale sguardo per secoli è andato a braccetto con la scelta non solo di come ma anche di che cosa rappresentare del corpo femminile. E, ovviamente, di cosa non rappresentare.
Nel libro L’eunuco femmina, pubblicato nel 1970, la storica dell’arte femminista Germaine Greer offre un elenco esaustivo delle parti escluse dall’immagine stereotipica dell’eterno femminino, scegliendo per il suo lavoro un titolo che non lascia dubbi su quale fosse la regina di tale rimozione. La vulva femminile era considerata scabrosa, non solo per la sua rappresentazione in sé, ma anche per il nesso con il piacere femminile che essa sottendeva: la donna, in arte, era oggetto del piacere, non soggetto che poteva provarne.
Ecco perché un quadro emblematico rispetto al tema della nascita come l’Origine del mondo, dipinto da Gustave Courbet nel 1866, suscitò tanto scandalo, e rimase celato allo sguardo del grande pubblico fino a una prima esposizione a New York (1988) e poi all’ingresso nella collezione del parigino Musée D’Orsay (1995). Con schietto realismo pittorico, Courbet metteva al centro dell’opera un pube e un perineo femminili, attribuendovi un titolo che richiamava sia il ruolo riproduttivo dell’area genitale sia la sfumatura erotica della passione che muove il mondo.
Si dovrà attendere il secondo Novecento perché un tale soggetto entri di diritto nella storia dell’arte.
Nel 1966 folte file di visitatori si accalcavano di fronte alla gigantesca scultura abitabile creata da Niki de Saint Phalle, Jean Tinguely e Per Olof Ultvedt all’interno del Moderna Museet di Stoccolma.
Si trattava di Hon – a Cathedral, una grande donna distesa sul dorso alla quale si accedeva proprio attraverso il vergognoso orifizio. E nessuno che gridò allo scandalo. Come cambiano i tempi, eh?
Certo era una figura giocosa, ispirata alle grandi Nanas scolpite dall’artista francese senza la precisione anatomica del dipinto di Courbet. Ma è anche vero che sono gli anni della cosiddetta liberazione sessuale, che dai più emancipati Paesi nordici stava arrivando anche in Italia.
È chiaro a cosa allude la piramide nera rovesciata dipinta nel 1964 da Pino Pascali al centro della parte inferiore di una grande tela monocroma, e il titolo fuga ogni dubbio. Grande bacino di donna (Mons Veneris) fa parte della serie dei Pezzi di donna (1964-1965), grandi tele con parti in rilievo in cui Pascali esplora la dimensione femminile con spiccata libertà creativa. Dei Pezzi fanno parte anche due opere vicine al tema della nascita: Gravida (Maternità o Alma Mater), il voluminoso ventre di una donna incinta, e Torso di negra al bagno (Nascita di Venere), il piano americano di un corpo color cuoio con indosso un bikini.
Gravida riporta alla ribalta il tema della maternità, e con una valenza iconografica, che nel clima di fermento pre-sessantottesco poteva apparire reazionario. Ma nella Mater di Pascali non si coglie tanto un monumento alla figura della madre quale simbolo di devozione e sacrificio tanto celebrata dalla propaganda fascista. Il mastodontico ventre rigonfio appare piuttosto il rifugio ideale per «l’uomo d’oggi» che, come scrive lo psichiatra e psicanalista Alfred Adler, cerca nel grembo materno il riparo dall’angosciante travaglio della quotidianità. La citazione è riportata tra i titoli di coda di Illibatezza, l’episodio diretto da Roberto Rossellini nel film Ro.Go.Pa.G del 1963, in cui si racconta la storia di un uomo ossessionato dal comportamento casto e morigerato di una donna, per antonomasia analogo a quello materno: sarà quando questa assumerà un atteggiamento più aggressivo e seduttivo che lui la lascerà in pace.
Anche nel bikini che in Torso di negra sostituisce le braccia con cui nel capolavoro di Botticelli Venere copre pudica il seno e il pube si colgono i segni della contemporaneità. Ancora oggi guardando Torso di negra al bagno (Nascita di Venere) ci accorgiamo di come Pascali fonda tra loro due realtà primordiali, il riferimento mitologico alla dea e quello mitizzato a un incontaminato mondo africano. Ma è nella scelta del costume da bagno che si coglie un’allusione forse oggi meno evidente ma che non poteva certo sfuggire al pubblico contemporaneo: nel 1962 l’attrice Ursula Andress entrava nella storia del cinema occidentale uscendo dal mare in bikini in una scena del film 007-Licenza di Uccidere. Il cortocircuito è immediato, e il nome della Andress diviene “Venere” su tutti i rotocalchi.
La figura della dea gode peraltro di una certa fortuna negli anni Sessanta, e le opere d’arte antica e moderna che la ritraggono sono citate e riprodotte sulla stampa come esempi di bellezza mai volgare. La rivista «Marie Claire», ad esempio, nel 1964 pubblica un’inchiesta a puntate sul pudore e la pubblicizza proprio con l’immagine del capolavoro di Botticelli. Forse è da qui che Giosetta Fioroni prende la fotografia che l’anno successivo proietta sulla tela per dipingere la sua Nascita di una Venere Op, mettendo al centro la figura della dea e amplificandone i movimenti della chioma attraverso la griglia di geometrie a scacchiera tanto diffusa nell’arte quanto nella moda del tempo.
Nascita di Venere è anche il titolo di una vulva scolpita in marmo bianco che vale ad Andrea Cascella un premio alla Biennale di Venezia del 1964. Il tema della nascita si ricongiunge così alla parte del corpo femminile che ne era emblema, prendendo il testimone lasciato da Courbet.
Tra gli anni Sessanta e Settanta la rappresentazione del pube si fa sempre più insistente, nell’arte italiana come in quella internazionale, anche in relazione alla progressiva diffusione dell’immaginario erotico (in Italia, le prime riviste per adulti sono pubblicate nel 1966). Se nei lavori degli artisti uomini il confine tra liberazione “progressista” di un immaginario e suo sfruttamento commerciale talvolta sfugge, l’intento con cui le artiste donne e femministe si riappropriano della rappresentazione dei genitali non lascia spazio a dubbi. Nelle loro opere il corpo femminile si fa infatti terreno di rivendicazione di un’identità fino a quel momento negata.
La rinascita
La rinascita è in atto: non solo le donne iniziano finalmente a essere presenti in maniera più consistente sulla scena artistica – non è un caso che proprio nel 1971 la storica dell’arte Linda Nochlin pubblichi l’articolo Why Have There Been No Great Women Artists? riflettendo sul perché di una lunga assenza –, ma anche la dimensione femminile inizia a essere rappresentata integralmente.
Nel libro Towards New Expression (1974) Suzanne Santoro accosta fotografie della vulva a statue, fiori e conchiglie con l’intenzione, come ben coglie la studiosa Raffaella Perna, di riabilitarne la fisicità allontanandosi dall’idealizzazione tipica del modello di rappresentazione maschile. È sintomatico della resistenza ad accogliere un’immagine non idealizzata dei genitali femminili la censura che il libro di Santoro subisce in occasione di una mostra sui libri d’artista a Londra nel 1976.
L’accusa, ça va sans dire, era di oscenità. Ma il dado ormai era tratto, e la vulva continuò a occupare un ruolo di spicco nella produzione di queste artiste.
Ed ecco che con la liberazione della rappresentazione del corpo, anche la maternità si fa campo di indagine slegato dalla soffocante aderenza a un modello dato. Verita Monselles, ad esempio, a metà degli anni Settanta si fotografa in veste di Madonna con in grembo un bambolotto e l’aria stanca. In un altro scatto, insieme a loro è coinvolto anche il fantoccio di un uomo, immagine che trasmette il senso di solitudine cui è costretta la donna nella gestione della casa, della famiglia e, possiamo facilmente aggiungere, delle proprie emozioni nei confronti della maternità.
Ancor più esplicita in questo senso è Stephanie Oursler, che negli stessi anni mette al centro di una fotografia il suo corpo nudo, mentre stringe al seno un agnello scuoiato. È ancora Raffaella Perna a venirci in aiuto e a cogliere in questo scatto la critica alle teorie freudiane secondo cui la donna divenuta madre troverebbe nel rapporto col figlio un appagamento illimitato.
Con un forte impatto emotivo, queste opere introducono la possibilità di una riflessione sul reale portato dell’esperienza della maternità, che tanto dà e tanto chiede, generando una variegata onda di emozioni che ancora oggi fatica a trovare spazio nella narrazione ufficiale su questo tema.
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1 commento
Ecco vorrei che in futuro si ragionasse anche sul essere donna e non essere madre